È il 20 febbraio 1991 e l’enorme simulacro di bronzo domina la capitale albanese, una folla immensa attornia il simbolo e lo abbatte. L’Albania è un Paese strano, diviso a metà tra passato e presente, tra Oriente e Occidente e ancora non smette di stupirci.
Rrubjekë. Il gallo sveglia il paese con il suo canto e io con il nonno siamo pronti per partire per il nostro viaggio a Tirana. La nonna ha preparato la solita borsa con frutta e verdure da portare allo zio che vive nella capitale. Mi sento un po’ assonnata ma l’idea di viaggiare mi piace tantissimo, ancor più se con me c’è il nonno. Dopo cinque chilometri a piedi raggiungiamo la piazzetta del paese dove vediamo altri contadini che come noi aspettano l’autobus. Il nonno chiede di farsi accendere la sigaretta ad un suo conoscente. Fa freddo, e tutti si stringono nei loro indumenti di colore opaco. Un gruppo di giovani raggiungono la piazza e tra una sigaretta e l’altra cominciano a parlare di ciò che sta accadendo a Tirana. I giovani dicono che stanno raggiungendo la capitale per sostenere il movimento studentesco che sta combattendo contro il sistema vigente.
Nel gruppo c’è un bambino poco più grande di me. Insieme ci mettiamo a tirare le pietre sulle enormi pozzanghere presenti sulla piazza, il gioco sta nel non affogare la pietra nella pozza, ma di farlo saltare affinché raggiunga l’altro lato. Ovviamente i miei tentativi sono vani, continuo a perdere e allora il gioco non mi piace più. Mi sposto e all’orizzonte intravvedo un autobus blu che viene nella nostra direzione. Pochi minuti e ci mettiamo tutti in fila per pagare, salire e prendere posto. Attraversiamo tanti piccoli paesini, Bilalas, Maminas, Vorë ecc. Lo scenario immenso della campagna albanese fa da sfondo a questo lungo viaggio che sembra non finire mai. L’autobus arranca nella sua corsa e soltanto alcune ore dopo riusciamo a raggiungere finalmente la stazione degli autobus di Tirana. Scendiamo tutti, composti, il nonno stringe mani e regala pacche sulle spalle ad alcuni dei giovani che hanno viaggiato con noi.
Insieme al mio vecchio ci incamminiamo per la capitale, non è la prima volta che la visito ma ogni volta che sono in questa città mi sento felice perché Tirana è bella e pulita e la gente qui sorride molto di più che nel villaggio. Comincio a sentire la stanchezza del viaggio e comincio a lamentarmi con il nonno al quale chiedo di prendermi in braccio.
“Ninì, il tuo vecchio è andato e tu sei una signorina ormai”, dice sorridendomi mentre scuote la testa. Nella fredda Tirana c’è uno strano fermento, si percepisce che sta accadendo qualcosa. Finalmente, raggiungiamo la piazza Skandërberg. Ci sono tantissime persone, di cui la maggioranza sono giovani, moltissimi i studenti. Ad un certo punto vedo carri armati che irrompono in piazza nel tentativo di scomporre i gruppi e sterilizzare la protesta dei giovani.
“O gjysh, çfarë janë këto [Nonno, cosa sono?]” gli chiedo.
“Ninì, sono come le macchine, delle armi che servono a quei criminali per difendersi.” dice il nonno, e poi aggiunge “Guarda, che spettacolo!”.
Le migliaia e migliaia di persone si scontrano a colpi di pietre con la polizia, che risponde con lacrimogeni e manganellate. Al culmine degli scontri, i poliziotti vengono annichiliti dalla folla di studenti che sono immensamente superiori per numero alle forze dell’ordine. Il nonno cerca riparo in uno dei palazzi, non siamo soli, con noi ci sono altri genitori, anche loro con figli più o meno grandi rispetto a me.
Dinanzi a noi si spiega uno scenario incredibile, uno di quelli che neppure un film di alta tensione può regalarti.
“Da quanto tempo ho sperato arrivasse questo giorno.” dice il nonno mentre mi stringe forte la mano e per un istante il suo volto tradisce i suoi modi austeri di fare liberandosi e regalandosi quella gioia nel volto che non gli avevo mai visto dipinto negli occhi. Da lontano vediamo studenti e operai che si danno da fare attorno alla statua, sembrano delle piccole formiche, e grazie a delle corde gli studenti riescono a buttarla giù in pochi attimi.
Si concludeva così quel periodo storico che avrebbe portato successivamente a tanti mutamenti nella nostra piccola società, ma una cosa oggi mi preme in quanto cittadina e protagonista di quegli avvenimenti, e a nome di quella storia, e a nome del popolo albanese chiedo allo Stato che vengano messi in discussione le scelte politiche adottate in quegli anni; c’è bisogno di chiarezza, c’è bisogno che qualcuno si prenda delle responsabilità nel denunciare i criminali di guerra, i politici, gli artisti e gli intellettuali di Enver Hoxha affinché siano chiari a tutti i protagonisti e gli antagonisti di quell’epoca con cui non abbiamo fatto ancora i conti.
Condividi