Immigrazione

Il nuovo Olocausto si chiama immigrazione, ed avviene nel Mar Mediterraneo

Accade in tutto il mondo: i migranti oggi sono ammassati in veri e propri campi di concentramento, costretti dietro dei muri. I primi vent’anni del Duemila non sono poi tanto diversi da quelli del Novecento.

 

Non vi racconterò la mia storia, perché sarebbe uguale alla storia dei milioni di migranti che scappano dalle proprie case, dalla propria terra, a causa delle dittature, delle guerre e della povertà. Sarebbe soltanto un eco retorico e autoreferenziale, e probabilmente l’ennesimo. La storia dell’albanese sfortunato, partito sulla nave Vlora, che alla fine ce l’ha fatta. Ma non sarebbe reale, e non sarebbe vera, e soprattutto non renderebbe giustizia agli incontabili morti di questi anni, a cui abbiamo taciuto persino la storia.

Eppure anche la mia storia potrebbe essere l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel Mondo. Sono una migrante, proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi, siriani, messicani: i migranti del Mondo che oggi sono ammassati in dei veri e propri campi di concentramento, costretti dietro dei muri, che a guardarli sembra che i primi anni venti del Duemila non siano poi tanto diversi da quegli anni Venti di inizio Novecento.

Sono semplicemente una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non clandestini, non richiedenti asilo, non migranti economici, che è riuscita a sopravvivere e a concludere quel viaggio. Sono cioè solo fortunata. Badate bene, non etichette, sto parlando di persone, che anni fa hanno attraversato un confine, magari il mare, sperando di trovare in un’altra parte del Mondo, nel mio caso in Europa, una speranza di una vita migliore, rispetto allo scenario di morte o disperazione che lasciavano.

Perché negli anni Novanta la mia terra era diventata un posto pericoloso in cui vivere. Perché in ogni parte del Mondo, quando la gente è ridotta alla fame, è disposta a tutto, fino a piegare l’aria all’odore del piombo.

Oggi però ho una nuova casa: l’Italia. Certo, non dimentico la mia Patria natia, ma ne ho anche una adottiva, che fra alti e bassi è riuscita a darmi un’opportunità.

In ogni parte del Mondo, quando la gente è ridotta alla fame, è disposta a tutto, fino a piegare l’aria all’odore del piombo. Ma i migranti oggi sono ammassati in dei veri e propri campi di concentramento.

Non è stato un percorso facile da affrontare, nemmeno quello dopo quel viaggio: in Italia ho conosciuto anche il razzismo, il sessismo, i luoghi comuni sui migranti in genere, e nel mio caso quelli sugli albanesi, ma ho conosciuto anche la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Dichiarazione universale dei diritti umani; cioè ho scoperto che come persona avevo dei diritti inalienabili, cioè che avevo diritto ad esserci, e che non mi poteva essere negato. Ma soprattutto in Italia ho avuto la possibilità di scegliere di studiare, di scegliere un percorso di vita, di scegliere uno stile di vita: in Italia ho scoperto che potevo avere un mio pensiero, e che poteva essere idealmente diverso da tutti, libero e critico, che potevo esporlo nei modi e nei metodi che ritenevo più opportuni, nel rispetto di me stessa e degli altri. Mi ha permesso di essere oggi qui, come giornalista, e raccontarvi questa storia. Forse voi non ci pensate, forse chi nasce qui pensa che sia davvero normale essere liberi, intendo liberi davvero, e che sia sempre così e ovunque. Ma no, non lo è. Ed essere migrante ti permette di apprezzarlo in un modo nuovo, unico. Di respirare l’aria e sentirne davvero l’odore.

Perché se oggi sono qui a raccontarvi tutto questo, è davvero grazie a questo viaggio. Sono milioni i migranti che sono partiti, che partono, e migliaia quelli che non sono mai arrivati, e che non arriveranno mai a destinazione. Essere qui stasera, per me, è un onore e un privilegio, ma lo sarà fino in fondo, solo se rispetterò la memoria di chi è stato meno fortunato di me; magari perché un gommone è affondato, magari perché ucciso ancora prima di partire, magari perché non aveva i soldi per pagarsi lo scafista di turno. Voi forse non ci pensate, ma sta succedendo anche in questo momento, e c’è un’Anita, su quel confine, a cui stanno impedendo di pensare, di parlare, di realizzarsi, di vivere, di esistere. Di non essere, solo perché non si è nati in quella parte di Mondo che s’illude di meritarselo più degli altri.

In Italia ho conosciuto anche il razzismo, il sessismo, i luoghi comuni sui migranti in genere. Ma ho conosciuto anche la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, ho scoperto cioè che come persona avevo dei diritti inalienabili.

Vedete, quando muore un cittadino occidentale, a Parigi come a New York, vengono eretti memoriali, vengono intitolate piazze e strade, si riempiono giustamente i giornali e i telegiornali con la cronistoria della vita di ciascuna di quelle persone; ma quando muore un migrante, beh, allora si tace. E quel silenzio è assordante quanto il senso di colpa che cerchiamo di nascondere. Quell’individuo, senza nome, senza documento, a cui è negata persino la Storia, è spesso solo un numero su una bara: il Migrante Ignoto, quello che abbiamo visto sfilare in tutti questi anni a Lampedusa, e che si è perso in quel grande cimitero blu che è diventato il Mar Mediterraneo.

Perché le nostre torri gemelle, quelle europee, sono oggi in fondo al Mare Nostrum; nostro perché degli albanesi, degli italiani, dei francesi, degli spagnoli, dei greci, nostro perché di tutti noi europei.

Negli anni Novanta, la guerra e l’anarchia sconvolsero il mio Paese, l’Albania. Una volta erano gli italiani a lasciare la propria terra, le proprie case, i propri affetti, nella speranza del sogno americano; ieri lo era l’Albania dei barconi, di chi attraversava l’Adriatico verso l’illusione del sogno italiano. Ma questo è accaduto tante altre volte, anche altrove, in tempi e Paesi diversi: qualcuno che lasciava la propria miseria, in cerca di una speranza. È accaduto, e accadrà ancora. Perché i migranti non sono quelli che vengono a rubarvi il lavoro, a occuparvi le case, ad approfittare di questo o quell’altro. I migranti, sono anche Anita. Persone, come voi e come me, che hanno diritto ad una speranza, ad un sogno, ad una vita. E spero che dopo stasera, prima di dire quella parola razzista che non andrebbe mai detta, ve lo ricorderete.

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