di Gëzim Qadraku
Il 7 ottobre scorso è stato l’undicesimo anniversario della morte di Anna Politkovskaja. La giornalista russa venne freddata a colpi di pistola mentre si trovava nell’ascensore dell’edificio nel quale abitava, a Mosca. Anna scriveva per il periodico indipendente Novaja Gazeta, e si era sempre impegnata per la difesa dei diritti umani, contro la deriva autoritaria del governo di Vladimir Putin e per la verità dei conflitti, come quello in Cecenia. Questo suo impegno le era valso premi come il Global Award di Amnesty International e il premio dell’Osce per il giornalismo e la democrazia. Oltre a questi riconoscimenti però, la realtà che lei raccontava tramite il suo superbo lavoro, l’aveva resa la giornalista da screditare e da uccidere per i signori protagonisti delle sue inchieste. Il processo nei confronti degli esecutori materiali dell’omicidio si è concluso tre anni fa, con condanne molto dure e due ergastoli. In tutto questo però, nessuno è stato in grado di capire chi fossero stati i mandanti. Di lei rimarranno i suoi libri-inchiesta come “La Russia di Putin”, la sua tenacia e il coraggio di cercare sempre la verità, nonostante la piena consapevolezza che questo desiderio avrebbe potuto portare alla morte.
Mentre il mondo ricordava e piangeva Anna, nove giorni dopo su tutti i media rimbalzava la notizia della morte della giornalista Daphne Caruana Galizia. Una fine inaccettabile per il modo in cui è arrivata, ovvero una bomba installata sulla sua auto, che è esplosa pochi istanti dopo che la cronista si era messa in moto. Che qualcuno la volesse morta non ci sono dubbi, ora il compito molto difficile per gli investigatori è capire chi siano stati i mandanti. La Galizia aveva partecipato all’importantissima inchiesta dei Panama Papers, la quale aveva rivelato anche la corruzione del mondo politico di Malta. Le sue ultime e più importanti rivelazioni, riguardavano proprio il primo ministro maltese, Joseph Muscat e due suoi collaboratori, che sarebbero coinvolti in vendite di passaporti maltesi e soldi ricevuti dal governo dell’Azerbaijan. Ma proprio il governo maltese ha dichiarato che chiunque sarà in grado di dare informazioni certe sull’accaduto verrà premiato con un milione di dollari. Forse, questo, un semplice modo per mostrarsi volenterosi di scoprire la verità, dopo le forti pressioni ricevute dai media internazionali.
La ricerca della verità ha portato ad un’altra vittima, una persona che provava a svolgere il proprio lavoro nel migliore dei modi. Esattamente come stava cercando di fare Giulio Regeni in Egitto, prima che venisse torturato e ritrovato qualche giorno dopo sul ciglio di una strada ormai privo di vita. Un ragazzo di soli 28 anni, ricercatore alla Cambridge University, che si era trasferito al Cairo per portare avanti i suoi studi sulle attività sindacali egiziane. Anche lui, sicuramente, aveva scoperto qualcosa che non doveva essere saputo ed era diventato un personaggio scomodo. Una persona da uccidere prima che rivelasse la verità, una persona per la quale non si è ancora stati in grado di scoprire chi ne abbia voluto la morte.
“Una verità, quella letteraria, che è nella parola non nella persona. La verità delle parole nel nostro tempo si paga con la morte. Ci si aspetta che sia così. Ti addestri la mente che sia così. Ne sono sempre più convinto. Sopravvivere a una forte verità è un modo per generare sospetto. Le verità della parola e dell’analisi non hanno altro riscontro che la morte. Sopravvivere a una verità della parola significa sminuire la verità. Una verità della parola porta sempre una risposta del potere se è efficace. Il potere è una parola generica e sgualdrinesca. Potere istituzionale, militare, criminale, culturale, imprenditoriale. E se questa risposta non viene, la parola della nuova verità non ha ottenuto scopo. Non ha colpito. E la prova del nove per aver colpito al cuore del potere è esserne colpito al cuore. Una reazione eguale e contraria. E feroce. O si porta una verità condivisa e tutto sommato accettabile. O si porta la verità delle immagini, quella delle telecamere o delle fotografie. Verità estetiche, verità morali supportate dalle prove. O non porti verità”. Roberto Saviano, Espresso, 27 aprile 2006.
Fare il giornalista è diventato un lavoro pericoloso, nel 2016 ben 9 corrispondenti sono stati uccisi, 205 aggrediti, 347 detenuti o arrestati. Si sono verificati 178 rapporti di accuse e di denunce penali; 390 rapporti di intimidazione, come abusi psicologici, molestie sessuali, trolling / cyberbullying e diffamazione; i professionisti dei media sono stati oggetto di attacchi alla proprietà 143 volte; giornalisti o fonti sono stati bloccati 299 volte e il loro lavoro è stato alterato o censurato 102 volte. Questi sono i numeri agghiaccianti del report effettuato da Mapping Media Freedom.
“Lo spettro delle minacce sta crescendo, la pressione sui giornalisti è in aumento e il diritto pubblico ad un’informazione trasparente è sotto assalto. Le persone che cercano di svolgere semplicemente il proprio lavoro, vengono bersagliate come mai prima d’ora. Queste tendenze non sono di buon auspicio per il 2017”. Hannah Machlin, responsabile del progetto Mapping Media Freedom.
La libertà di stampa ha raggiunto il suo punto più basso nel 2016, solo il 13% della popolazione mondiale vive in un Paese dove vige un totale libertà per i media, mentre il 45% della popolazione risiede in Stati considerati not free, alcuni di questi sono: Azerbaijan, Crimea, Cuba, Eritrea, Corea del Nord, Siria,Turkmenistan e Uzbekistan. Mentre i Paesi nei quali si stanno riscontrando i maggiori declini della libertà di stampa sono: Polonia, Turchia, Serbia, Venezuela e Ungheria. Lo scandalo del governo Azero, che avrebbe pagato in questi anni fior fior di soldi ai media di tutto il mondo e la morte della giornalista Caruana Galizia, hanno sottolineato, in questo 2017, come il mondo dell’informazione abbia sempre di più un ruolo determinante nel mondo politico e si stia trasformando in un luogo pericoloso, dove chi decide di scrivere la verità muore.
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