Ci sono popoli che continuano a guardare all’Europa come faro di civiltà, come motivo di ispirazione per condurre una terribile lotta di emancipazione dall’oppressione: il nostro problema è che invece di rispondere con orgoglio a questa chiamata, restiamo chiusi in bagno a guardarci insicuri allo specchio
“Ogni grande crescita porta di fatto con sé un enorme sbriciolamento e deperimento: la sofferenza, i sintomi della decadenza appartengono alle epoche che fanno enormi passi in avanti; ogni potente o tremendo movimento dell’umanità ha creato nello stesso tempo un movimento nichilista”. Così scriveva Nietzsche. Per Gramsci invece “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere” e che, nello spazio della crisi, “si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. È interessante leggere il presente con in mente due pensatori tanto distanti fra loro, eppure perfettamente consapevoli, ciascuno per il suo tempo, di stare vivendo un’accelerazione imprevedibile della Storia.
Per noi, l’era che segue la globalizzazione, è soprattutto l’occasione di sperimentare un cambiamento per il quale le categorie interpretative con le quali abbiamo sin qui maneggiato il mondo, non sembrano più funzionare. Stiamo vivendo di fatto una profonda e repentina trasformazione, mentre sembra che nessuno abbia la ricetta giusta per rispondere ai grandi quesiti che, prima ancora di farsi specifici (modelli economici, sostenibilità, crescita demografica globale in opposizione a un invecchiamento drammatico del continente europeo, flussi migratori), interrogano il nostro stesso essere umani in una dimensione che sembra contrapporre a questo nostro stesso essere umani una sorta di dominio del non essere: siamo, per dirla con Byung-chul Han, circondati da non-cose, abbiamo non-relazioni sociali su piattaforme virtuali, investiamo in non-soldi estratti nelle non-miniere di internet, ci nutriamo di non-informazioni che non raccontato storie ma sono frammenti di uno story-telling orientato al marketing di prodotti o della politica stessa, per cui votiamo per non-partiti, per non-candidati la cui sorte è spesso quella di offrirsi, nel giro di una stagione, prima come doni della provvidenza e infine come capri espiatori.
Da questo, la tentazione di uno sguardo apocalittico sul destino dell’Occidente è sicuramente seducente, per quanto non tenga conto del fatto che forse l’Occidente stesso, come terra del Tramonto, è costitutivamente destinato a un’apocalisse continua. Che anzi, paradossalmente, proprio questo essere l’Occidente come la Fenice che ricompare ogni volta dopo gli “ultimi giorni dell’umanità”, ci induce piuttosto a pensare che qualcosa ancora manchi alla riflessione di questi ultimi anni perché la politica possa tornare a parlarci seriamente del nostro destino.
La mia impressione è che, nel frattempo in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, due siano i rischi che si presentano alla riflessione che voglia tradursi in azione politica: da una parte cedere alla nostalgia, al vagheggiamento di un ritorno a mondi trapassati (un esempio che ne vale mille: l’amaro risveglio degli inglesi dopo il sogno della Brexit), dall’altra indulgere nel tipico narcisismo del senso di colpa dell’Occidente che ci porta dritti in quella notte in cui tutte le vacche sono nere. Una dimensione di relativismo etico, tanto stupida quanto autolesionista, per cui l’odio verso noi stessi ci porta a tentennare (altro esempio che ne vale mille) davanti allo scempio delle sanguinose repressioni della polizia morale di Teheran. Troppo occupati a guardarci allo specchio dei nostri compiaciuti esami di coscienza, non abbiamo più il coraggio di affermare che, molto semplicemente, una società che garantisce libertà di espressione a tutti è superiore a quella che organizza una polizia morale per vegliare sul corretto posizionamento del velo sulla testa delle donne.
Mentre dunque sperimentiamo “la sofferenza” e “i sintomi della decadenza” che “appartengono alle epoche che fanno enormi passi in avanti”, ci sono popoli che continuano a guardare all’Europa come faro di civiltà, come motivo di ispirazione per condurre una terribile lotta di emancipazione dall’oppressione. Il nostro problema è dunque che invece di rispondere con orgoglio a questa chiamata, restiamo chiusi in bagno a guardarci allo specchio, come una bella donna insicura, mentre l’amante ci aspetta per strada sotto la pioggia.
Basterebbe allora cambiare prospettiva per un attimo e pensare le cose per quello che sono davvero, oltre le pose intellettuali, oltre il divertimento filosofico delle profezie di sventura. Basterebbe forse comprendere che non viviamo certo nel migliore dei mondi possibili, ma si può essere abbastanza orgogliosi che tutti gli altri, al momento, se la passano peggio di noi e che, quindi in definitiva, il nostro problema non può più essere il pessimismo della ragione, ma semmai quello della volontà. In una parola, la fatica terribile di alzare il culo, e la consapevolezza che, intanto, darsi così da fare per ottenere così poco è sempre e comunque molto meglio di niente.
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