di Gëzim Qadraku
È il 17 febbraio 2008, quando a Prishtina il Parlamento kosovaro, riunitosi in una seduta straordinaria, dichiara la propria indipendenza dalla Serbia.
Da ex regione autonoma della Jugoslavia, il Kosovo diventa uno Stato indipendente. La dichiarazione viene sottoscritta da tutti i deputati presenti in aula, eccezion fatta, ovviamente, per i rappresentanti della minoranza serba, i quali decidono di non presentarsi neanche. In aula viene esposta la nuova bandiera, su uno sfondo blu compare il profilo della nazione di colore giallo, sopra il quale vi sono sei stelle bianche che simboleggiano le sei comunità etniche presenti sul territorio: albanesi, serbi, turchi, bosniaci, rom e gorani. Un richiamo diretto all’Europa. Inoltre, per la prima volta in assoluto, viene intonato anche l’inno nazionale, che non prevede alcun testo. Il Kosovo entra ufficialmente nella Storia, diventando uno Stato indipendente.
Il Kosovo è uno Stato orgoglioso, indipendente e libero.
Hashim Thaci
Trascorsi dieci anni dalla sua nascita, il piccolo Stato balcanico ha ricevuto, ad oggi, 115 riconoscimenti diplomatici come Stato indipendente. Andando nel dettaglio dei riconoscimenti, questi sono arrivati dal 58% degli Stati che fanno parte delle Nazioni Unite, per quanto riguarda invece l’Unione Europa, sono cinque i Paesi che non lo hanno ancora riconosciuto, e quattro sono membri della NATO. Col passare degli anni sono arrivati riconoscimenti importantissimi da enti internazionali, due su tutti, FIFA e UEFA, che hanno permesso agli atleti kosovari di partecipare a competizioni come le qualificazioni per il mondiale di calcio, le Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2014, nelle quali è arrivata la prima, storica, medaglia d’oro. Conquistata dalla judoka Majilinda Kelmendi. E pochi giorni fa la bandiera kosovara ha sfilato anche alla parata d’inaugurazione dei giochi olimpici invernali che si stanno tenendo in Corea del Sud.
Il caso della Catalogna ha fatto riemergere in molti l’attenzione sulla questione del Kosovo. Motivo principale per il quale da Madrid non è ancora arrivato il riconoscimento per Prishtina, in quanto dalla Spagna vedono una certa somiglianza tra la condizione catalana e quella kosovara. Proprio pochi giorni fa la Spagna ha ribadito alla Commissione Europea la propria visione sul Kosovo, dichiarando che “Il Kosovo non fa parte del processo di allargamento, ma va trattato come un caso particolare“. Occorre innanzitutto ricordare che la popolazione albanese del Kosovo è stata vittima di una guerra, 1998-99, nella quale l’intenzione di Milosevic era quella di fare della ex-regione autonoma parte della Serbia, liberandosi così della popolazione maggioritaria albanese, che ne costituisce il 90%. Fatti, questi, che non sussistono al momento a Barcellona e dintorni. Sulla dichiarazione di indipendenza kosovara si è dichiarata la Corte di giustizia internazionale, affermando che essa non viola né il diritto internazionale, né la risoluzione 1244, né tantomeno il quadro costituzionale vigente dal giorno della proclamazione stabilito dall’UNMIK. Lavoro della Corte che si è concluso in questo modo, senza che l’organo abbia dichiarato nulla per quanto riguarda il quesito se il Kosovo sia uno Stato legittimo, allo stesso tempo non ha dato alcun via libera agli altri stati per riconoscere Prishtina.
Noi oggi siamo accettati da 115 paesi come Stato indipendente. Questo è un successo notevole. Ma per quanto riguarda la coesione interna, siamo ben lontani dalle aspettative.
Albin Kurti
Per la nascita del più giovane Stato d’Europa un ruolo decisivo e fondamentale, è stato quello degli Stati Uniti, sin dai tempi della guerra. Molto probabilmente il Kosovo non sarebbe sopravvissuto, senza l’intervento statunitense. Impegno che viene tutt’oggi ricordato dalla popolazione, con strade intitolate ad esponenti americani e la statua nella capitale in onore all’ex presidente americano Bill Clinton. Supporto nei confronti degli USA che non ha è diminuito neanche dopo l’elezione di Donald Trump. Posizione, quella di Washington, che però non è sempre stato di appoggio nei confronti di Prishtina e dintorni. Basti ricordare che prima del conflitto gli Stati Uniti consideravano l’Uçk (l’esercito di liberazione kosovaro) un’organizzazione terroristica, per poi cambiare idea e diventarne partner. Significativo cambio di rotta che venne chiarito dalle azioni di Washington nel piccolo Stato dopo la fine della guerra, con l’installazione di quella che è la base americana più grande del mondo, Camp Bondsteel, ben 955 acri di terreno. Successivamente è iniziata una politica di privatizzazione, che ha visto gli USA protagonisti di primo piano, i quali tentarono inizialmente di accaparrarsi la PTK, la società di telefonia pubblica del Kosovo, ma poi si tirarono indietro, senza però lasciarsi scappare altre occasioni come le risorse minerarie e l’oleodotto. Insomma, per gli americani la strada in Kosovo è sempre aperta.
Quello della privatizzazione è un argomento cruciale per il destino del Kosovo, infatti, dal giorno dell’indipendenza, è stata adottata questa politica di vendita delle principali proprietà statali a prezzi di saldo, come se queste appartenessero ai politici, più che essere delle risorse per lo Stato e soprattutto per i cittadini. Teoricamente, laddove avviene una privatizzazione, la compagnia dovrebbe avere un miglioramento in termini di efficienza e produttività, cosa che però non sta avvenendo. L’investimento privato sembra essere diventata una scusa per poter vendere a prezzi più bassi e nei tempi minori possibili, in maniera tale che quei soldi finiscano nelle tasche degli uomini che si trovano al potere. Un processo che ha due problemi principali, il primo è la mancanza assoluta di ricerche o analisi per comprendere se la privatizzazione in un determinato caso, sia la scelta migliore; il secondo è il fatto che le caratteristiche e le differenze delle industrie e/o compagnie non sono state minimamente prese in considerazione. L’attenzione è stata data esclusivamente alle offerte degli acquirenti, per comprendere quale di queste sarebbe stata la più redditizia in termini di guadagno. Una politica che ha portato nelle casse dello Stato una cifra che si aggira intorno ai 400-500 milioni, la quale, teoricamente, sarebbe dovuta essere l’offerta per una sola delle proprietà statali. Ad oggi, la privatizzazione avrebbe dovuto portare 1-2 miliardi di euro nelle casse statali, e non la cifra irrisoria citata poc’anzi.
Gli esempi più lampanti di questa politica sono le privatizzazioni della compagnia elettrica, venduta dal governo nel 2012 al gruppo turco Limak-Calik alla cifra di 26,3 milioni di euro. Una cifra irrisoria, ma che non è il punto più assurdo di questa storia, in quanto dal momento del passaggio in mano ai turchi, i cittadini kosovari hanno visto un aumento del costo della corrente elettrica e soffrono ancora di problemi con questa considerando che non hanno ancora la completa disponibilità giornaliera. E poi dell’aeroporto di Prishtina, dato in concessione per i prossimi venti anni alla cordata Limak & Airport de Lyon MAS, dal cui intervento sono previsti 100 milioni di investimenti e un allargamento di 25 mila metri quadri. Gli investimenti arrivati dall’estero in questi anni sono stati numerosi e piuttosto generosi, tanto per citarne qualcuno: Germania 292 milioni, Regno Unito 250 milioni, Svizzera 115 milioni, Slovenia 195 milioni, Austria 130 milioni. Soldi arrivati nonostante gli incentivi siano veramente pochi per investire in un paese caratterizzato da una costante instabilità politica, da un piccolo mercato domestico e da una corruzione altissima, il Kosovo si posiziona infatti al 95° posto su 197 Paesi presi in considerazione nella classifica di Transparency International.
Un Paese che ha a disposizione un’enorme forza giovanile, la quale però tocca il 50% di disoccupazione. Un dato ancora peggiore è quello che riguarda le donne senza lavoro, ovvero l’80%. Numero condizionato anche da una mentalità retrograda, che vede la figura della donna soltanto come responsabile del mantenimento della casa e della crescita dei figli.
Secondo il rapporto dell’agenzia statistica del Kosovo, lo stipendio medio netto nel 2016 era di 450 euro, 337 nei settori privati e 586 nei settori pubblici.Con la paga minima per gli under 35 di 130 euro e per gli over 35 di 170 euro. Per crescere economicamente il Kosovo dovrebbe concentrarsi sulle proprie infrastrutture, cercare di produrre il più possibile, per cessare di dipendere dalle importazioni. Migliorare il processo di privatizzazione, cercare di equipaggiare la propria gioventù con le abilità e le capacità richieste dal mercato. Lo Stato più giovane e uno dei più poveri d’Europa. La costante di questi dieci anni di vita è stata l’instabilità politica e la formazione di governi insicuri e incoerenti, uno su tutti l’ultimo di Ramush Haradinaj, il quale è passato dall’essere imprigionato in Francia su mandato di cattura da parte della Serbia, rischiando prima l’estradizione a Belgrado, per poi essere liberato e diventare Presidente del Consiglio dei Ministri, proprio grazie ai voti della minoranza serba, dopo che questi avevano ricevuto l’ok proprio da Belgrado. Impossibile trovare un filo logico e coerente a questa vicenda. Un Presidente del Consiglio che dalla sua dispone di 21 ministri e 82 sottosegretari e ha deciso di alzarsi il proprio stipendio a 3000 euro.
Gli ultimi tempi hanno visto una condotta rischiosa da parte delle forze al potere kosovare, le quali infatti si sono permesse di minacciare l’abrogazione della Corte Speciale per i crimini commessi dall’Esercito di Liberazione del Kosovo. Se c’era da dare un segnale che avessero qualcosa da nascondere, non avrebbero potuto fare di meglio. Sono stati 43 i deputati di maggioranza a votare la richiesta di una sessione straordinaria del Parlamento affinché fosse revocata la legge che creò la Corte nel 2015. L’intervento internazionale è stato immediato e ha permesso che la proposta venisse bloccata. Atteggiamento questo inaccettabile e spaventoso, come definito dall’Unione Europea. La classe politica sta giocando con il fuoco, in quanto sono ormai anni che non riesce a raggiungere ciò che gli è richiesto, come la definizione dei confini con il Montenegro, l’accordo di stabilizzazione con la Serbia e ora questa iniziativa non fa altro che attirare su Prishtina le ire degli attori internazionali, i quali hanno il coltello dalla parte del manico, questo è bene ricordarlo al governo Haradinaj.
Dieci anni fa le speranze e i sogni erano tanti, ma poco di ciò che ci si augurava è accaduto. Il Kosovo rimane una questione che divide, a partire dalla sua indipendenza per finire alla situazione politica attuale, e soprattutto a come gli investimenti stranieri stiano conquistando il territorio, con il lasciapassare delle forze politiche. Quasi che un classe dirigente corrotta e con più di uno scheletro nell’armadio faccia comodo. Nel frattempo a subire tutto ciò, non può che essere la popolazione. Un numero altissimo di persone che negli ultimi anni ha tentato di lasciarsi alle spalle una situazione disastrosa, per cercare di costruirsi un futuro migliore in Europa, con tutte le difficoltà del caso considerando che un cittadino kosovaro necessita di un visto per poter uscire dai propri confini. Il sogno europeo è una vera e propria utopia, ed è un errore, in primis da parte di Bruxelles, dare anche la minima fiducia a Prishtina, in quanto la classe politica in questi anni non ha fatto altro che riempirsi il proprio portafoglio, lasciando in secondo piano la crescita e il miglioramento delle condizioni di vita. Dieci anni fa si urlava “New Born” e si festeggiava. Oggi le urla sono colme di rabbia e da festeggiare, è rimasto ben poco.
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